Appena otto giorni fa eravamo a Matera, presso l’Istituto Superiore di Scienze Religiose, seduti allo stesso tavolo per un convegno sui giovani e la ricerca di Dio ed abbiamo potuto scambiare qualche battuta anche nel coffee break.
Del Prof. Giuseppe Mari, morto improvvisamente nella notte tra martedì 13 e mercoledì 14 novembre, mi aveva subito colpito la franchezza e la lucidità delle sue affermazioni: «Dobbiamo tornare ad aver fiducia nella Chiesa che siamo» aveva più volte ripetuto; e ancora «non va dimenticato che noi con i giovani e i giovani con noi dobbiamo incontrare Cristo. Non basta incontrarci tra di noi; per fare questo non occorre essere cristiani». Un solenne invito a non fare della vita ecclesiale una mera animazione attraverso attività senza afflato spirituale e cristiano.
La vita, narrava ancora il Prof. Mari, è ricca di sfumature da cogliere (illuminante l’analogia grammaticale con la paratassi – offerta dai media – e l’ipotassi – proposta dalla vita al di qua dello schermo) e, ancora la vita, va vissuta con un ordine. Penso all’ordo amoris di agostiniana memoria.
Gli avevo detto della volta in cui mi ero presentato ad un gruppo di capi scout con una bottiglia vuota per dire in maniera provocatoria il rischio che corre oggi la comunità cristiana: di andare incontro ai fratelli assetati di ogni tempo con una bottiglia vuota. Ci trovammo d’accordo: siamo nella primavera della Chiesa e ora più che mai bisogna combattere contro le gelate più insidiose.
La sua morte improvvisa mi porta a ripetere a me stesso per l’ennesima volta che “la vita è un bene ricevuto che trova la sua pienezza quando viene donato” (Nuove vocazioni per una nuova Europa). Per questo occorre stare al mondo con cuore grato; abitati da un umile coraggio e da una coraggiosa umiltà.
A-Dio Prof.